Storia della comunità del cascame
Prologo
Se è vero che la Storia – quella che viene scritta e poi studiata – è narrazione di eventi che hanno coinvolto popolazioni, stati, uomini di governo e condottieri di eserciti, che si fonda su documenti di ogni tipo che ne trasmettono la memoria; è pur vero che c’è anche una storia, molto più modesta di proporzioni e di significato duraturo – che ha avuto una propria validità non solo per coloro che l’hanno vissuta, ma per chi la continua. Storia che rischia di perire se la sua documentazione, fatta di ricordi dei protagonisti o affidata a fotografie che ingialliscono nei cassetti o negli album di alcuni – non riesce a trovare chi la raccolga e la tramandi.
Perché è della storia – piccola piccola, ma vera – del nascere e del costituirsi di una comunità affermatasi in una zona del tutto esterna al contesto cittadino di Vigevano, che si vuole parlare: del rione Cascame e della sua parrocchia da crearsi ex-novo nei primi anni del 20° secolo.
Questa zona territoriale all’est dell’abitato cittadino era del tutto estranea al vissuto della città. Tant’è vero che i nostri vecchi, per dire che si recavano al centro città, dicevano “ Anduma a ‘ vgevan “.
Pare che fosse una zona soltanto agricola e pochissimo abitata. Ne fanno fede le denominazioni viarie che hanno resistito alla moda dei tempi. “Via Aguzzafame“, “Via Gambolina“, “Via Chitolla“, “Via Tre Moroni“: erano indicazioni che quelle strade, attraverso la campagna, pervenivano alla cascina Aguzzafame, o alla cascina Gambolina (che non ci sono più) o alla cascina Chitolla (che esiste ancora). E la “Via del Porto“ è pure reminiscenza dell’antico porto sul Ticino, da dove si traghettava alla riva milanese del fiume, prima che fosse costruito il ponte.
Ma anche coloro che la popolavano in modo residenziale – e non solo avventizio – dovevano essere di pochi ceppi familiari, tanto che per distinguersi nei vari rami genetici i Bellazzi – quivi sicuramente di stanza – erano ricordati con soprannomi (gli “Urtlanin “, i “ Maveni “, I Tracagnott”): gente che si spartiva la campagna e la sua coltivazione.
Dal punto di vista logistico poi ancora agli inizi degli anni ‘50 chi si dirigeva oltre la Piazza del mercato (l’attuale Piazza s. Ambrogio) lasciando alle spalle il “portone“ e si dirigeva verso est, aveva la netta sensazione di andare “fuori città“: si trovava a percorrere l’attuale via Buozzi avendo alla destra una lunga muraglia che chiudeva tutta la proprietà Bonacossa, dietro la quale c’era il vecchio edificio della Filanda (ormai vuota), e alla sinistra vecchi edifici tra i quali la locanda con stallazzo “La Frasca”, fino all’incrocio con il viale della stazione (“la lea“).
E dopo le poche case della “Sardegna“ il passaggio a livello, che sembrava delimitare in modo netto il “mondo“ che stava al di là.
Era, il passaggio a livello, custodito da una persona che abitava una piccola garitta posta proprio in mezzo alle rotaie; era costituito da due cancelli per ciascuna parte: uno grande, che regolava il transito dei veicoli, e l’altro, più piccolo, quello dei pedoni. Il primo veniva chiuso con molto anticipo rispetto l’orario del passaggio dei treni; quello piccolo veniva guardato a vista dal custode, che cercava di favorire i pedoni fino al tempo più prossimo all’arrivo del treno. Dopo questo passaggio a livello, a sinistra si trovava il lungo muro di cinta che chiudeva il Cotonificio Gianoli, e, a destra, il Naviglio oltre il quale, solo negli anni ‘30, furono costruite tre villette e il Calzaturificio EOS di Alfredo Bonomi, proprio davanti al “Molino Molteni“. Lì la strada – come anche ora – si biforcava: quella di sinistra andava verso lo stabilimento della Cascami Seta e l’altra verso quella che per gran parte era ancora campagna, con i corsi d’acqua – così importanti per la conduzione agricola – a cielo aperto.
Ma dove veramente cominciava territorialmente il “borgo“ – o il rione – era al ponte della roggia Mora. Da lì la via si arricchiva di case di abitazione – quelle più vecchie, ma anche di più recente costruzione -, ma più ancora di negozi, di osterie – o luoghi di ritrovo -. E tutti questi luoghi erano dotati di campi per il gioco delle bocce: se ne potevano contare almeno cinque nello spazio di trecento metri: il “Deciu“, il “Camill” , il “Tabachin“, “ Vislon“ e il “Lanchin“. Inoltre negozi di alimentari: il lattaio, il fruttivendolo, il tabaccaio, più tardi la rivendita dei giornali, ma soprattutto la vendita del pane e dei commestibili. Erano il segno tangibile di una comunità ben viva, numerosa e ormai stabile.
Ebbene di questo la città sembra non avere ricordo: se si va a veder nei libri fotografici della Vigevano del ‘900 non vi si trova alcuna documentazione.
Su questo territorio, come paracadutato, venne ad essere costruito agli inizi del secolo lo stabilimento per la lavorazione dei cascami della seta. Le ragioni per questo inserimento di una grande attività industriale nel contesto agricolo della zona sono state sicuramente di carattere economico; non sarebbe stata possibile una motivazione diversa. Non vogliamo neppure tentare di ricercarla ed esporla. L’area occupata per le necessità aziendali fu veramente vasta. Doveva trattarsi di un’area non molto fertile per la coltivazione agricola, come si è potuto rilevare ricordando le buche che, decenni dopo la costruzione, si contavano nelle immediate vicinanze. C’era infatti quella “mitica“, molto grande e che ha resistito nel tempo, all’inizio della Via Gorizia, destinata per molti anni a discarica dei rifiuti. C’era anche quella – più piccola, ma non meno interessante per i ragazzi – alla Via S. Giuseppe, che è stata riempita per far posto all’Oratorio maschile. E vi era inglobato anche un cascinale: la Talamona, a testimonianza della destinazione originaria della zona.
La grande fabbrica aveva una lavorazione estranea alla tradizione lavorativa della città, che, all’epoca, si stava dedicando a quella calzaturiera, che l’avrebbe proiettata a diventare la “capitale della scarpa“.
Quindi la zona, già esterna al contesto storico cittadino, diventava estranea alla sua vita lavorativa e produttiva.
Per il buon avviamento e funzionamento dell’attività del nuovo stabilimento occorreva che essa fosse affidata a personale esperto e preparato: che fu importato da altre zone, dove da tempo era già in essere quel tipo di lavorazione. Per il lavoro meno qualificato si doveva ricorrere alla manodopera della zona, che però non poteva essere vigevanese per quanto sopra osservato. Era un personale che poteva provenire dalla circostante Lomellina, dove nell’agricoltura si iniziava ad avere un certo esubero di manodopera, anche per l’introduzione delle prime macchine e si evidenziava la disponibilità di lavoranti femminili. Da qui la necessità per la dirigenza del nuovo stabilimento di creare alloggi per i “qualificati“ provenienti, anche con il seguito familiare, dalle zone di origine (bergamaschi, veneti, friulani, marchigiani) e il ricovero per le lavoratrici, che, provenienti dai paesi del circondario e non avendo a disposizione mezzi di trasporto idonei, avevano bisogno di ambienti dove ricoverarsi e vivere dopo le ore di lavoro, almeno per i sei giorni lavorativi della settimana. Ci fu quindi la costruzione, nelle immediate vicinanze della fabbrica, di abitazioni per le famiglie dei dirigenti e degli operai qualificati (oggi si direbbero “quadri “),e, all’interno dell’area dello stabilimento, di locali per il “convitto“ delle operaie. A questo convitto presiedeva il personale religioso delle suore: che costava poco e garantiva il padronato sia di un tipo di tutela morale, sia anche di quella latamente “ideologica”, a garanzia della sicurezza sociale.
Secondo le leggi proprie della vita, dove vi è lavoro vi è insediamento di uomini che vi trovano il modo più agevole per condurre l’esistenza, e questo richiama altri che vi vedono la possibilità di relazioni economiche e sociali; così come dove si stabiliscono donne vengono a confluire uomini – soprattutto se di età giovane – e si creano i presupposti indispensabili per il costituirsi di comunità. E in questo territorio avvenne così. Con i lavoratori che avevano già famiglia ci convennero altri che sentivano il bisogno di costituirsela e lì trovarono il posto e il modo per realizzarsi. Ma questo vi fece convenire anche altri – anche nuclei familiari – che non trovavano nella grande fabbrica il loro posto di lavoro, ma che lì trovavano ugualmente condizioni favorevoli sia economiche che sociali per stabilirvi la residenza.
Orbene questa nuova piccola comunità che si andava sviluppando non poteva vivere solo di quanto forniva la nuova grande fabbrica: non c’è solo il lavoro – il quale garantiva i mezzi economici per il vivere di ogni giorno – che può riempire la vita degli uomini. Essi hanno bisogno di rapportarsi con una realtà umana molto più ampia. La vita non è solo mangiare, bere, abitare. Ci sono le nascite e le morti; ci sono le gioie e i dolori; c’è l’amore, la passione, la competizione, l’aspirazione al meglio o almeno al più; c’è la solidarietà e l’istruzione. Una comunità ha bisogno di una “cultura di vita“ che ne garantisca in qualche modo non solo l’esistenza, ma anche la qualità. Famiglie, dunque, provenienti da diverse parti – anche lontane fra di loro – che qui avevano costituito la loro patria (cioè: il “dove si vive“) dovevano trovare il collante della comunanza di vita attingendolo dal tessuto esistenziale e culturale nel quale – pur nelle diverse origini – erano cresciute. Nella mistilingue quotidianità c’era una unità di principi di vita comuni e che non potevano non esprimersi nel senso religioso della vita cristiana. Da qui la richiesta di una assistenza religiosa, che trovò sbocco prima con la messa a disposizione di una cappella in locali della stessa fabbrica, poi nella costruzione di una chiesa su terreno donato dalla società Cascami Seta e infine con la costituzione di una parrocchia.
Perché il territorio che venne attribuito alla nuova parrocchia in precedenza era di competenza per la parte centrale della parrocchia del Duomo, per la parte di sud della parrocchia di S. Pietro Martire e per la parte di nord della parrocchia di S. Francesco. Ma la presenza dei rispettivi parroci nelle varie zone doveva essere ben scarsa; semmai erano gli abitanti a dovervi fare riferimento per i momenti canonici della vita: battesimi, matrimoni, funerali. Per questo la missione religiosa nella comunità che andava formandosi era stata affidata dal Vescovo ai missionari Padri Oblati: all’inizio a P. Balduzzi e successivamente a P. Innocente Cei. Anche la chiesa – costruita con finanziamento personale del Vescovo Scapardini – era stata disegnata come capanna in terra di missione.
Proprio la erezione canonica e civile della parrocchia dava anche costituzionalmente una patente ufficiale di riconoscibilità a questa comunità che si era costituita nei fatti: essa aggregava le diverse componenti e ne garantiva la specificità, visto anche che era la prima, che, nel nuovo assetto territoriale della città, si affiancava alle tre in cui da secoli era stata divisa la comunità cittadina.
Certo essa non fu l’unica ragione – anche se ne fu la più rilevante.
Infatti la popolazione lavoratrice del grande stabilimento aveva conosciuto la nuova stagione delle rivendicazioni non solo salariali delle forze sociali organizzate e vi aveva partecipato. Si può ricordare che in un edificio di proprietà della Cascami si era insediata una “Cooperativa di consumo“ – e per decenni tale scritta compariva sul muro dell’edificio, anche se lì non vi aveva più sede. Vi fu invece la costituzione di una società cooperativa del tutto autonoma dal “padrone“, che costruì nelle vicinanze un ampio edificio, dove, in unione con l’ente cooperativo cittadino, vi era uno spaccio di generi alimentari, ma soprattutto si era costituito un luogo di incontro e di svago per i lavoratori (rigorosamente riservato agli uomini): quasi un polo laico in contrapposizione al polo religioso confinante. Un luogo (“Al Lanchin“) che negli anni della omologazione sociale instaurata dal fascismo era tenuto sotto controllo dal “cascamino“ Cav. Attilio Violino – grande mutilato di guerra – il quale svolgeva il suo compito con molta discrezione e moderazione.
Ancora va sottolineato che altro elemento di coesione fu la scuola. I figli che componevano le famiglie accasate nel rione avevano necessità di frequentare la scuola. La distanza da quelli che erano gli edifici scolastici cittadini non era poca, soprattutto per i più piccoli. Così nello stesso ambito del grande stabilimento fu costruito un piccolo edificio per due aule, in cui si svolgeva l’istruzione dei primi due anni delle scuole elementari. Per la frequenza delle classi ulteriori bisognava recarsi alle Scuole Regina Margherita di Piazza Vittorio Veneto. Quando la popolazione scolastica crebbe si trovò anche una soluzione di ripiego: vi fu una terza elementare dislocata in un locale del Convitto del Cotonificio Gianoli, nell‘attuale Via Podgora e poi, anche per la quarta classe, in locali di fortuna ricavati in quello che era stato il Convitto della Cascami, ormai non più utilizzato a questo scopo. Finchè – a riconoscimento dell’importanza e dell’autonomia del rione – fu costruito un edificio scolastico completo per tutto il ciclo dell’istruzione elementare – nel 1938 – intitolato “Scuola Elementare 28 Ottobre“. Si potrebbe dire che, da un certo punto di vista, con la costruzione di quell’edificio scolastico si concludeva una fase della costituzione della comunità del Cascame: significava che la città – tramite la sua amministrazione – prendeva atto e coscienza dell’esistenza del rione e, dopo la consacrazione che ne aveva dato la Chiesa, lo rendeva parte della città a pieno titolo.
La vita nel rione trascorreva scandita e regolata dal suono della sirena del grande stabilimento, che segnava le ore del lavoro e del riposo, a cui, con il campanile della parrocchia, le campane facevano sponda a richiamare le diverse tappe della giornata, ma anche gli eventi importanti della vita: le nascite, i matrimoni, le morti. E datavano il trascorrere delle stagioni con le grandi festività religiose che la contrassegnavano. Perché la grande fabbrica dominava su tutto il suo territorio, anche per chi non vi lavorava: c’era ogni tanto a gravare sulla zona quell’odore nauseante che si sprigionava dal vascone del macero dei cascami dei bozzoli, che faceva sentire la sua presenza incombente, ma anche necessaria, quasi rassicurante per il benessere della comunità. Lavorare nella grande fabbrica costituiva per un certo periodo un privilegio: il lavoro poteva anche essere meno qualificante rispetto ad altri, ma aveva il privilegio della stabilità e della continuità; mentre per altri lavori c’erano i periodi ricorrenti di disoccupazione (si chiamava la “ mola “), in cui per godere del sussidio statale occorreva andare tutti i giorni agli uffici pubblici per la “firma“.
Seguì a questi avvenimenti il periodo della guerra: sei lunghi anni, che nello sviluppo della comunità rionale segnarono una pausa. Le forze più vigorose della gioventù erano lontane. Si dispersero i gruppi che andavano formandosi. Le preoccupazioni, le ristrettezze e i pericoli di quegli anni tennero compresse le energie vitali della comunità, che però stavano preparandosi per le diverse prospettive che furono aperte dal dopoguerra.
Qui, come in tutta la città, di cui ormai era parte accettata, vi fu in quegli anni un moltiplicarsi di costruzioni, un pullulare di laboratori artigianali di ogni genere, una febbre una frenesia di accogliere e di godere delle novità che il nuovo clima sociale, politico ed economico favoriva.
Dal punto di vista logistico il rione venne ad assumere la fisionomia che più gli si confaceva. Venne a perdere prima la zona della Brughiera, dove si erano avuti nuovi insediamenti con la realizzazione delle “Case Fanfani“ e dell’erezione della parrocchia di Cristo Re.
Successivamente perse la zona più a nord, quella della “Pietrasana“, dove, nell’immediato anteguerra si erano insediate le “Case Popolari“, e nel dopoguerra si era avuto sviluppo edilizio e anche l’erezione della parrocchia della Madonna Pellegrina
Il rione divenne più omogeneo, veramente gravante sulla grande fabbrica e sulla confinante chiesa parrocchiale. E nell’acceso clima sociale e politico di quel periodo i due edifici divennero quasi il simbolo della contrapposizione della società italiana dell’epoca. Contrapposizione forte e vivace, che però non diede luogo ad episodi di violenza e di intolleranza (così come non ne aveva dati al termine della guerra).
Non cambiarono solo le cose; cambiarono anche gli abitanti. I figli non si accontentarono più della scuola elementare; andarono alle scuole superiori: i più alle professionali, ma anche alle altre, sia all’ Istituto di Ragioneria, che al Liceo. Non solo: ma la loro ambizione non era più il posto di lavoro nella grande fabbrica, ma in altre occupazioni più qualificate e remunerate.
La partecipazione alla vita pubblica della città fu forte e anche apprezzata. Negli anni 50 assunse la carica di Sindaco di Vigevano il cascamino Ernesto Boselli – anche se per breve periodo – che fu molto apprezzato per la sua indiscussa onestà. Negli anni 60 furono assessori nell’amministrazione di centrosinistra Vittorio Betassa e Cesare De Marchi, indiscutibili abitanti del rione.
Ormai il rione era entrato a fare parte del tessuto urbanistico e sociale della città, al pari degli altri rioni storici, anche se per diverso tempo gli abitanti ebbero e mantennero – forse anche per volutamente esibita civetteria – una propria identità.
Del resto la matrice molto operaistica lo rendeva, negli anni di forte contrapposizione ideologica, di spiccata espressione di sinistra. Qui, subito dopo il 25 luglio 1943, per espressione spontanea dei lavoratori della Cascami Seta, la via 28 Ottobre fu intitolata a Giacomo Matteotti. Quando si tenevano le elezioni, la comunicazione dei risultati delle sezioni del Cascame ne spostavano l’esito. E questo durò per almeno trent’anni, durante i quali la vita del rione conobbe le sue massime espressioni.
Poi le mutazioni delle cose e degli uomini, che via via si erano venute quasi insensibilmente maturando, manifestarono tutta le loro implicazioni sul territorio e furono percepite improvvisamente quando la grande fabbrica entrò nella sua fase terminale.
Quando cessò anche il suono della sirena della fabbrica fu come se un’era fosse veramente finita. Anche le campane della chiesa ebbero meno voce e meno risonanza comunitarie. Ormai il rione era completamente omologato alla città. Accanto all’edificio delle scuole elementari era sorto, prima, un asilo per i piccoli, e, infine, lì accanto – dove ai primi tempi c’era l’edificio agricolo della “Talamona“ e vecchi orti – era stato costruito un modernissimo edificio per le scuole medie, con auditorio e una palestra aperta anche alle associazioni sportive.
Dove c’era stata la grande mitica buca dei ragazzi c’era un condominio; e l’area del grande stabilimento era stata aperta, e dove tanti operai per tanti anni avevano lavorato alle macchine c’erano edifici nuovi o ristrutturati, adibiti ad attività commerciali o di svago; e venne a stabilirvisi la sede della Pubblica Sicurezza.
La “piccola storia” della vita di questa comunità, del tutto anomala rispetto al resto della città– il suo nascere, il suo crescere, il suo affermarsi – non è però l’oggetto di questa pubblicazione.
Ad essa è già stato dedicato un libro, uscito nel 2010 per opera di un gruppo di ex-oratoriani della parrocchia di San Giuseppe al Cascame.
Si è ritenuto comunque farne cenno per evidenziare le difficoltà pastorali che si sono trovati ad affrontare quanti hanno avuto il compito di fornire ad una comunità civile così particolare e disomogenea le strutture materiali e spirituali, gli strumenti ed i supporti, per farne una comunità religiosa.
Il nostro pensiero commosso e riconoscente va soprattutto alle Suore di Maria Bambina ed alle Pianzoline che ne hanno assunto l’eredità, ai padri Oblati dell’Immacolata Giovanni Balduzzi ed Innocente Cei, al primo parroco don Carlo Perotti ed a tutti i laici, rimasti anonimi, che hanno generosamente contribuito a fornire a quel piccolo mondo di “immigrati” nazionali un supporto per la loro fede.
Saranno questi gli argomenti che completeranno la sezione “storica” di questo sito.