Don Paolo Nagari
Don Paolo Nagari è nato a Cilavegna nel 1955 ed è stato ordinato il 23 giugno 1979 nella Cattedrale di Vigevano dal Vescovo Mario Rossi.
Dopo aver svolto il suo ministero in alcune parrocchie della Diocesi è stato nominato Parroco della nostra Parrocchia di San Giuseppe al Cascame il 25 ottobre 2019.
Abbiamo rivolto a lui alcune domande a cui volentieri ha risposto per presentarsi personalmente.
Dopo più di un anno in questa parrocchia come si trova?
Essere parroco in una significativa fetta della città ha costituito per me un sereno ritorno al fare cittadino e in un anno così particolarmente segnato da malattia e morte non è stato facile essere pastore senza poter avere contatti significativi con la gente. Ha giocato a mio favore il fatto di aver già conosciuto un buon gruppo di persone che hanno favorito il mio desiderio di abbracciare questa nuova realtà e dopo l’iniziale “stordimento” la strada si è appianata facilitando il mio compito di seminatore della Parola.
Quali lati positivi ha incontrato nella sua azione pastorale?
Mi sono presentato alla comunità come un buon contadino che lancia speranzoso il buon seme ma la bella scoperta è stata quella di trovare una comunità viva, gioiosa e concreta in cui i vari don Carlo, don Piero e don Antonio hanno arato, seminato e innaffiato bene. Sono contento di celebrare i divini misteri con proprietà di canti, segni, presenze e invocazioni. Prego volentieri e frequentemente i predecessori defunti perché donino anche a me larghezza di cuore, profondità di spirito e mani operose.
Quali prospettive e progetti per il futuro?
I progetti si pensano e realizzano insieme ed in comunione. Le cose materiali si fa relativamente presto a realizzarle perché non parlano.
Per quanto riguarda i progetti per giovani, famiglie, carità e catechesi so di dover agire con gradualità e con moduli da assemblare insieme.
Il tutto richiede tempo che è sempre galantuomo. Lo spirito creativo e costruttivo che ho intravisto in tante competenze mi fa ben sperare ma a questo punto non devo più parlare al singolare ma al plurale ricordando spesso il vecchio adagio.